La Cabannina - dati forse poco scientifici, ma attendibili

Senza andare a cercare le origini della vacca Cabannina troppo in là nel tempo – sarebbe come dire “siamo tutti figli d’Adamo ed Eva” – cercheremo di enunciare alcune ipotesi riguardo il formarsi di questa robusta razza. Pare abbastanza ovvio che la Val d’Aveto sia stata il “naturale incubatore” della “Razza Cabannina”. Infatti per secoli la Valle è stata un’enclave appartata rispetto “al mondo”. Posta su un acrocoro naturale che ne faceva una specie di Svizzera, soprattutto nella gestione del “controllo dei confini”, retta per secoli da un sistema “feudale”, poco incline ad “aprirsi all’esterno” - nel senso moderno del termine -, anche se la sua funzione di “zona di transito” permetteva alcune “contaminazioni”, la Val d’Aveto recava in se le condizioni per lo sviluppo di una razza diremmo “incontaminata”. Basandoci sui documenti finora reperiti, si può ragionevolmente supporre che il “formarsi” della “razza Cabannina”, sia avvenuto intorno alla seconda metà del Seicento. Fino a quell’epoca riteniamo che le vacche, se ben fossero state presenti sul territorio lo erano in numero esiguo, dato che il mantenimento delle stesse presupponeva un investimento di capitale che i villici dell’Aveto, visto che ancora non si era consolidato in Valle uno Stato “moderno” - tramite il Marchesato di S. Stefano dei Doria -, non erano in grado di esborsare, non essendosi ancora affrancati dallo stato di “servi della gleba”. Senza contare le turbolenze del Quattrocento e quelle del Cinquecento, col continuo scorazzare in valle di eserciti, banditi e compagnie di ventura. Nella seconda metà del Seicento, in Valle, si nota il consolidarsi di una classe di nobili e, ci si conceda il termine, di “piccolo borghesi”. Costoro, cioè i nobili della Cella, i notai di questa casata - ma anche di altre famiglie collegate -, i rami laterali della casata, i mugnai, taluni preti, i maggiorenti, ecc., dispongono di denaro liquido da investire, indi lo “investono” nell’acquisto di capi di bestiame: pecore, capre, ma soprattutto vacche. Il sistema che crea da volano al presunto espandersi della “razza Cabannina” nel territorio del Cabannese, che fino alla metà del Seicento comprendeva pure la Parrocchia di Priosa, essendo l’oratorio di S. Giovanni Battista di Priosa non ancora stato eretto a chiesa parrocchiale – lo sarà nel 1659 -, presumiamo sia quello della socida. Grazie alla socida, i contadini delle Parrocchie di Cabanne e Priosa, ma anche di altre, si affrancano dalla miseria, mettendo a frutto, tramite un duro lavoro, il nuovo “status” derivante dal possedere finalmente delle bestie proprie. Il contratto di socida98, infatti, prevedeva in genere che il contadino, che gestiva per cinque o sette anni il patrimonio bovino, ovino e caprino del “maggiorente” che gli affidava le bestie, dividesse a metà gli utili con l’affidatario. Ciò permetteva al contadino nello spazio di cinque anni o più di avere una “stalla di bestie” sua propria, elevandone il tenore di vita e permettendogli, nel prosieguo della sua attività, di vendere i vitellini, gli agnelli ed i capretti, per introitare denari che gli avrebbero permesso di acquisire le proprietà terriere di ex nobili, maggiorenti, o altri contadini che si erano nel frattempo inurbati a Chiavari, Genova, Bobbio, ed altrove. Ovviamente, accrescendo le sue proprietà o affittando terreni, il contadino poteva permettere alla 98 Nel Notaro Nicolò Repetto, A.S.Ge, Notai Antichi, estrapolando si legge: «-1700 a 11 luglio - - Soccida della Ripa - 1 una vacca (5) di quattro anni – con un vitello bello- pregna di febbraio altra di tre (5) con vitella ordin.a - pregna per marzo 1 altra di tre (5) senza vitello- pregna come sopraUna scotona (5) d’un anno Pecore da frutto n° 4 – altre tre novelle e tre agnelle. formaggio lib[re] 20 Capre da frutto n° 3 una caprina del’anno, e tre caprette di questo anno. formagio- lib[re] 7.6 […]» 143 sua “azienda familiare” di espandersi ed incrementare così il numero delle bovine a sua disposizione, essendo queste meno “parche” nell’alimentazione degli ovini e dei caprini, che in qualche modo si arrangiano. Infatti, le vacche per essere “produttive” hanno bisogno di pascoli, acqua, prati e fieno. Gli ultimi quattro elementi enunciati, sono quelli che secondo il nostro modesto parere hanno “forgiato” la cosiddetta “razza Cabannina”. Per le alterne vicende della vita, non sempre una famiglia contadina riusciva a procedere secondo una parabola ascendente. 

La vita in campagna non è esattamente il quadro bucolico descritto dai poeti o dipinto da pittori di “maniera”. Infatti, poteva accadere che per le avversità del tempo, ciò che si era accumulato in anni di “vacche grasse”, andasse perduto insieme ad un raccolto “andato a male”, malattie, debiti non saldati, passaggio di eserciti, carestie, ecc. Indi le poche vacche di proprietà venivano vendute per sopravvivere, le terre venivano rivendute, e tornava la miseria. Se ancora rimaneva, dopo questi sventurati eventi, qualche vacca nella stalla, al mero scopo di sopravvivere con i frutti del latte, non possedendo quasi più terre, le più appetibili dal punto di vista delle compravendite, ci si riduceva a condurre le vacche a pascolare nelle comunaglie, o in qualche bosco ai limiti dei pascoli. Invece del fieno, o le erbe dei pascoli e dei prati, si alimentavano le vacche con ogni sorta d’erbe, e in genere anche con le foglie rastrellate nel bosco. Indi, le vacche in questione si adattarono, come fa qualsiasi specie, ad un regime alimentare diverso dal solito – per loro brucare foglie non era certo un segno di “decadenza”, ma di pura sopravvivenza -. Per brucare foglie, o le poche erbe sopravissute, occorreva modificare la propria morfologia per giungere più agilmente sulle creste dei monti, indi le vacche del Cabannese trovarono naturale adattarsi ad una nuova “esperienza di vita”. Così nel giro di qualche secolo nacque la vacca Cabannina. La cui certificazione secondo il nostro modesto parere è data dalla Relazione BERTANI del 1883. Ad intaccare il patrimonio bovino del Cabannese e non solo, con l’introduzione della “razza Bruno Alpina”, intorno agli anni ‘20 del secolo XX° venne “L’allegra brigata del rinnovamento”, sulla base di inconfutabili “studi scientifici” dei signori della “Cattedra Ambulante dell’Agricoltura di Chiavari”. Più tardi malgrado la “fiera opposizione” dei nostri contadini, da sempre legati alle tradizioni e al credo dei loro “padri”, intorno agli anni ‘60 venne lo scandalo della “tubercolina”, che intaccò in maniera quasi definitiva il patrimonio della “razza Cabannina”, propugnando il presunto abbattimento di quasi tutte le vacche presenti nelle stalle del territorio, tacciate fraudolentemente di “tubercolosi” per “ingrassare” un noto veterinario ed i suoi accoliti, mercanti e similari. Si racconta che le vacche sequestrate per l’abbattimento venissero poi rivendute altrove – almeno così professavano i vecchi d’Aveto, che si resero conto troppo tardi della truffa -. Ora, si sta tentando di salvaguardare ciò che rimane di un patrimonio che è Nostro, perché da questa Valle abbiamo tratto i natali, sia direttamente che indirettamente. Nota aggiuntiva: Facciamo notare che, ancora verso gli anni ‘60, nelle parrocchie di Priosa e Cabanne era praticato l’allevamento dei bovini da latte, per poi rivenderli e riuscire in qualche modo a cavarne un reddito dignitoso. A tale scopo esistevano delle “stazioni di monta” nelle due Parrocchie – sicuramente una a Sbarbari, paese di allevatori e mercanti di vacche -. Essendo i tori figli di vacche di razza Cabannina, 99 allevati amorevolmente a tale scopo, per integrare il reddito della famiglia che gestiva la “stazione di monta”, pare evidente che i figli o le figlie di questi tori fossero in buona parte diventati degli “ibridi” di razza Cabannina, non essendo certo che le vacche sottoposte alla “monta” fossero tutte di “razza Cabannina”. P.S. La verità non sta nelle mani di nessuno! Aborriamo coloro che si rifanno a “teoremi” dettati da una presunta “superiorità scientifica”, senza conoscere la storia, le abitudini, e il territorio di una “Nazione” come quella valdavetana… Questa su esposta non è la verità, è soltanto una “presunta verità”, ma si rifà, almeno si ritiene, al “buon senso”. Il tempo e la storia diranno un giorno se qualcosa di giusto albergava, in parte, nella nostra mente. 99 Ricordo - da ragazzo - il manto nerastro, con la striscia lattiginosa sul dorso, dei tori di Sbarbari.

Sandro Sbarbaro

Tratto per gentile concessione dell’autore da: “LA CABANNINA E LE ALTRE. La storica presenza della vacche in Val d’Aveto”

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